
Il lavoro di un architetto, oltre ad essere un mestiere, è un modo di vivere. Non si tratta solo di progettare edifici o tracciare linee su un foglio (o su uno schermo), ma di risolvere problemi, mediare tra esigenze e vincoli, gestire il caos creativo e, qualche volta, fare i conti con la dura realtà di un settore complicato. Per chi osserva da fuori, il nostro lavoro può sembrare affascinante, persino misterioso, ma la quotidianità racconta una storia ben diversa.
Questo articolo è una piccola riflessione su cosa significhi davvero essere un architetto oggi, tra stereotipi, realtà e qualche inevitabile momento tragicomico.
Una domanda semplice
Qualche anno fa, durante una passeggiata in compagnia di una famiglia in cui le nostre figlie maggiori frequentavo la stessa classe, l’amica di mia figlia, che all’epoca aveva 6 o 7 anni, mi chiese:
Che lavoro fai?
Tipica domanda curiosa di una bimba che vuole conoscere meglio il papà della sua amica e, vista l’età della persona che aveva fatto la domanda, ho provato a pensare velocemente ad un modo per spiegare in breve tempo e nel modo più semplice il lavoro di un architetto.
Sicuro di aver pensato la risposta migliore al mondo per quella fascia di età e che avesse tutti i necessari requisiti, dissi, sicuro di me:
Disegno case!
La bimba si fermò sui suoi piedi e guardò tutti con gli occhi sgranati. Dopodiché mi guardò dritto negli occhi e proferì:
E ti pagano anche?
E scoppiò in una fragorosa risata, seguita istantaneamente da quella di tutte le altre persone presenti, tranne la mia. Che seguì poi un secondo dopo quando realizzai il senso della sua ultima domanda associata alla risata.
In effetti, ammesso e non concesso di trovare qualcuno che ti paghi solo per fare il disegno di una casa come quello che fanno i bimbi della sua età, non poteva essere considerato un vero e proprio mestiere!
La prossima volta so cosa rispondere! “Sono un architetto”, soluzione ancora più semplice da capire e che lascia un alone di mistero, che non fa mai male!
Mistero che ha le gambe anche abbastanza corte, in fin dei conti! Chiunque ha un’idea di quello che fa nella vita un architetto, probabilmente infiocchettato dall’idea fantastica dello stereotipo dell’archistar con sciarpina d’ordinanza, blocknotes e matita, indaffarato perennemente a disegnare idee architettoniche futuristiche.
Nel mio caso la realtà è un po’ diversa (per usare un eufemismo) e penso anche quello di molti altri architetti che lavorano in Italia.
Molto più ancorato al pragmatismo, la mia libera professione si suddivide in due grosse macro aree: il lavoro in studio e fuori dallo studio, che a sua volta si suddivide in cantiere e col Cliente (o fornitore o Impresa).
Il collante di tutte queste attività è ormai diventata la tecnologia informatica, croce e delizia del nostro modo di vivere moderno che, indissolubilmente, si lega al nostro lavoro che ha come scopo principale quello di far vivere bene le persone. Prima di immergersi nei bit, bisogna risolvere un paio di questioni poco virtuali.
Salto ad ostacoli
Prima di mettermi a “disegnare case” per lavoro ho dovuto affrontare un primo ostacolo, ostacolo che anche tu hai dovuto affrontare, volente o nolente.
Parlo del divario tra conoscenze accademiche e competenze pratiche.
Molte competenze necessarie nel lavoro di architetto non vengono insegnate all’università; ci viene dato di certo un modo di pensare e di affrontare i problemi molto sviluppato e trasversale, con gli strumenti necessari e le basi teoriche ma non l’ABC della professione. Per chiarezza non intendo con questo che non venga insegnato il modo di lavorare, intendo che non viene insegnato cosa è una Partita IVA, cosa implica, la previdenza sociale e tutto quello che riguarda la parte fiscale di un libero professionista. O anche di uno studio associato. Almeno a me non è stato insegnato e da quel che mi è stato riferito da colleghi più giovani nemmeno agli attuali laureandi.
Non temete però, non siamo i soli, ed anche se il detto “Mal comune mezzo gaudio” sia di poco conforto, la cosa positiva è che anche in America la situazione non è tanto diversa dalla nostra; non perché abbia particolari contatti in America, ma la situazione si può desumere da un paio di libri che mi sento di consigliare su tutti perché offrono dei grandi insegnamenti per la nostra professione: parlo dei due libri scritti da Eric Reinholdt di 30×40 Design Workshop, il primo dal titolo “Architect and Entrepreneur: A Field Guide to Building, Branding, and Marketing Your Startup Design Business” dedicato ad impostare correttamente le basi di partenza di uno studio mentre il secondo dal titolo “Architect and Entrepreneur: A How-to Guide for Innovating Practice: Tactics, Strategies, and Case Studies in Passive Income” dedicato all’innovazione della professione. Sono certo che ti troverai come me a sottolinearne alcuni passaggi della parole di Eric su cui ritornare una volta finito il libro e metterle in pratica, con sistemi declinati per la tua attività lavorativa.
Leggi anche: Architetto. Sette sfide manageriali per la crescita professionale

Architect and Entrepreneur: A Field Guide to Building, Branding, and Marketing Your Startup Design Business (English Edition)
Eric Reinholdt (Autore)

Architect and Entrepreneur: A How-to Guide for Innovating Practice: Tactics, Models, and Case Studies in Passive Income
Eric Reinholdt (Autore)
Ambiente di lavoro
Nella libera professione, quella vera, non all’interno del regime delle finte partite iva, lo studio ha dei requisiti minimi da rispettare: oltre a quelli dettati dalla normativa edilizia in merito ai locali abitabili, deve comprendere almeno una scrivania, una sedia ed una connessione ad internet.
Grazie a queste qualità minime la sua ubicazione può avvenire in pratica dappertutto: da una stanza appositamente designata per essere il proprio studio, al tavolo del soggiorno, al tavolo di uno spazio coworking fino all’estremo di un tavolo di un bar in completa mobilità.
Cose tutte già fatte e che faccio normalmente nel mio lavoro: non solo perché è difficile gestire l’equilibrio tra vita privata e lavoro, soprattutto all’inizio della carriera, ma anche perché gli architetti hanno la cattiva abitudine di avere gli orari imprevedibili che dipendono dai progetti che stanno gestendo. Per salvarmi da questa situazione, ho cercato di imporre il più possibile limiti chiari, cercando di gestire il tempo nel modo più efficiente possibile e dedicarsi ad hobby al di fuori del lavoro.
Personalmente trovo che sia difficile riuscire a dividere facilmente il lavoro dalla vita privata, essenzialmente per una semplice questione: nel nostro caso la materia di cui ci occupiamo, gli edifici, ci circondano. Sono ovunque. A partire da quando si aprono gli occhi appena svegliati. Non a caso viene definito “totalizzante” il lavori degli architetti.
Per tornare in tema di gestione del tempo nonostante la totalizzazione della professione, la possibilità di lavorare nelle mezz’ora di ritaglio tra un sopralluogo e l’altro in mobilità, mi ha salvato davvero tantissimo in più di un’occasione.
In queste occasioni non è raro incontrare delle persone con cui scambiare due parole che magari ti offrono lo spunto per risolvere un problema: nella nostra professione la progettazione non nasce solo dal tempo trascorso nel nostro studio dedicato alla produttività, creiamo dei progetti indirizzati alle persone e spesso è proprio il tempo che viene definito “non produttivo” in cui siamo impegnati in riunioni o in discussioni informali con colleghi e persone che contribuisce alla risoluzione di problemi o all’innovazione.
Un lato positivo in più per il lavoro in mobilità.
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Conclusione
Alla fine, essere architetto è un mix unico di creatività, tecnica, pazienza e, ammettiamolo, una buona dose di ostinazione. Non è solo disegnare case, ma progettare esperienze, spazi, soluzioni, sopravvivendo a clienti indecisi e cantieri imprevedibili. Il tutto cercando di non perdere il sorriso (anche quando il software decide di aggiornarsi nel momento meno opportuno).
E sì, alla fine ci pagano. O almeno, lo speriamo sempre!